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Perché il bambù?

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Il bambù è un’erba gigante della famiglia delle Poacee, una graminacea che esiste in circa 1500 diverse specie, in parte a clima tropicale, in parte a clima temperato. Con oltre 30 milioni di ettari coltivati nel mondo (FAO 2010) ed un fatturato annuo superiore ai 60 milioni di dollari, il bambù rappresenta una risorsa naturale utilizzabile per migliaia di possibili applicazioni.

La pianta si intreccia alla tradizione e alla cultura di molte popolazioni, rurali e tribali, e riveste un ruolo fondamentale per le loro condizioni sociali ed economiche da tempi immemorabili. Quella del bambù in Cina, ad esempio, è una storia vecchia di circa 7000 anni. Sin da allora vi sono persone che costruiscono la propria abitazione con quella stessa pianta con cui realizzano ponti e imbarcazioni e dalla quale ricavano cibo, oggetti di uso comune ed i propri indumenti.

Possiamo quindi immaginare facilmente come il rapporto della popolazione con questa pianta possa aver assunto, nel corso dei millenni, anche un alone di sacralità.

È stato soprannominato “amico del popolo”, “pianta dai mille volti”, “acciaio verde” e “oro verde”. Questo oro, abbondante ed economico, risulta perfetto per soddisfare i molti bisogni delle popolazioni umane. “Dalla culla del bambino, alla cassa da morto”, si usa dire in Oriente.

Il nuovo germoglio, per garantirsi la luce del sole, sa che dovrà raggiungere un’altezza superiore a quella dei fratelli maggiori nati nelle stagioni precedenti, ed è così che, ogni anno, spuntano dal terreno germogli che in breve tempo diventeranno culmi di diametro e di altezza sempre crescenti. La piantagione si rinvigorisce attraverso un raccolto equilibrato e il taglio delle canne mature. Ciò permette all’impianto di coltivazione di ottenere produzioni sempre crescenti che, una volta raggiunto il pieno sviluppo, proseguiranno fino al culmine della fioritura che, per la specie maggiormente coltivata in Italia, avviene dopo circa cento anni.

Queste speciali piante erbacee contengono inoltre sostanze antimicotiche ed antibatteriche che ne consentono la coltivazione senza l’uso di fitofarmaci, preservando la vita organica del terreno e la purezza delle falde acquifere.

Un’altra formidabile caratteristica del bambù è la sua velocità di crescita. Quando il bosco è giunto ad un pieno grado di sviluppo, un nuovo culmo può raggiungere l’altezza di venti metri in soli due mesi, toccando picchi di crescita che possono arrivare, in alcune fasi, ad 1 metro al giorno. 

Il bambù produce ossigeno, cibo e materia prima. Il formidabile metabolismo di questa pianta consente l’assorbimento di grandi quantità di anidride carbonica, in molti casi con valori superiori a quelli di diversi tipi di foreste arboree, rendendo quindi possibile una importante valorizzazione dei crediti. Dal punto di vista alimentare, il germoglio di bambù è considerato uno dei cibi più nutrienti al mondo e dotato di diverse proprietà benefiche per il nostro organismo. I culmi (o canne), che possiedono formidabili caratteristiche di resistenza meccanica e di versatilità, sono idonee alla realizzazione di prodotti di alta qualità su una grande varietà di filiere produttive che vanno dall’edilizia al tessile, dalla cellulosa alla bioenergia.

La Phillostachys Edulis (o Phillostachys Pubescens), con una percentuale vicina al 90% del totale, è il bambù a clima temperato che dal 2014 ad oggi, si sta coltivando in Italia. I suoi culmi sono in grado di raggiungere, in pieno regime di sviluppo, un’altezza di 25 metri con un diametro di 15 centimetri.

La scelta di concentrarsi, almeno in questa prima fase, su questa specie particolare è dovuta a due ragioni: l’abbondanza delle produzioni e la loro versatilità di impiego, che spazia dall’uso alimentare, alle filiere delle materie prime industriali.

Si tratta di una pianta a sviluppo monopodiale: si propaga, cioè, attraverso un comportamento radicale strisciante. I suoi rizomi, ad una profondità di circa 30/40 cm, continuano incessantemente a colonizzare il terreno circostante, facendo nascere in ogni stagione un nuovo germoglio ad una data distanza da quelli già esistenti.

Questa specie, inoltre, è in grado di sopravvivere al freddo fino a temperature inferiori ai -20° gradi.

Ho potuto verificare personalmente questo parametro su un impianto sperimentale che nel 2017 è stato realizzato all’interno dell’Università di Scienze Agronomiche e di Medicina Veterinaria di Bucarest (USAMV), dove durante l’inverno ho visto il termometro segnare -23° ed in primavera ho assistito alla crescita dei nuovi germogli.

Potremmo vivere anche senza gli animali, ma senza il bambù sarebbe la morte.

Confucio

Il bambù in Italia e in Europa

Come mai, ogni anno, si commercializzano nel mondo, milioni di tonnellate di bambù per un giro d’affari di miliardi di dollari e di tutto questo in Europa non vi è traccia e nessuno ne parla?  

Nel corso degli anni sono stati redatti progetti e scritte tesi di laurea su questo tema, il trattato in italiano più antico in cui mi sono imbattuto, pubblicato a Catania nel 1924, reca il titolo “Il Bamboo – Storia, propagazione e coltivazione di esso a scopo industriale”. (FOTO B) Da tutti questi documenti si traggono sempre le stesse conclusioni: il bambù a clima temperato può essere coltivato nei nostri territori e può avere migliaia di utilizzi possibili. Nella sola Cina, a temperature e clima simili a quello del sud dell’Europa, sono presenti impianti di produzione per circa 10 milioni di ettari.

Se non esiste dunque un motivo, tecnico o agronomico, che ne impedisca la coltivazione, come mai nessuno fino ad oggi ha mai deciso di produrlo a livello industriale?

Da qualche secolo alcune specie erbacee hanno fatto il loro ingresso in Europa, ma soltanto a puro scopo ornamentale. Certamente il bambù non è parte della nostra cultura, non è una pianta autoctona, ma questo non può certamente rappresentare un problema, dal momento che non lo sono mai stati neppure la patata, il pomodoro, il mais o il kiwi. Eppure, ciò non ha impedito ad un paese come l’Italia di diventare un eccellente produttore di queste filiere.

La diffusione della filiera industriale del bambù Europeo ha nell’Italia, con oltre duemila ettari di coltivazioni messe a terra, il suo centro strategico. Ciò avviene non solo per il fatto che il nostro Paese è quello che per primo ha cominciato a crederci maggiormente, ma anche per le favorevoli condizioni climatiche, la nostra propensione per l’agricoltura e la fertilità del nostro suolo.

Fibre vegetali e plastiche

Facendo un parallelismo con la Canapa, una pianta con la quale un tempo in Italia si producevano svariati prodotti, mi verrebbe da dire che il mondo occidentale qualche decennio fa, scelse di sposare il petrolio, la plastica e le fibre sintetiche, a discapito di quelle vegetali.

Vivo a Ferrara, una provincia che, nel solo 1914, aveva prodotto 363.000 quintali di canapa, quando l’Italia, all’epoca, era il secondo produttore al mondo dopo l’Unione Sovietica. (Sitografia I). Dopo la fine della Seconda guerra mondiale si avviò un percorso politico che portò questa pianta ad essere messa fuori legge e, contestualmente, si stabilì in città un polo petrolchimico pronto ad offrire rifugio ai lavoratori della canapa rimasti disoccupati.

La scelta fu chiara, d’altronde il tema dell’inquinamento a quei tempi non esisteva. Oggi invece stiamo assistendo al processo inverso: il declino dei derivati del petrolio ed un progressivo sviluppo delle materie prime sostenibili.

I primi passi della Sfida Bambù

Dal punto di vista commerciale, la strada che ho percorso nei primissimi anni di questa mia nuova attività è stata quella di coinvolgere gli imprenditori agricoli e i piccoli proprietari terrieri, spesso insoddisfatti dello scarso rendimento delle colture tradizionali.

Tutto ciò che è nuovo, spesso spaventa. Mi sono trovato a interfacciarmi con agricoltori titubanti che, anziché vedere l’enorme potenziale di questo nuovo mercato, si focalizzavano su quanto avrebbe potuto andare male.

Alcuni di questi imprenditori agricoli con cui sono venuto in contatto però, si innamorarono della mia idea, e con loro avviai le prime piccole coltivazioni, al massimo da 10 ettari. È stato attraverso queste esperienze che ho potuto poi, definire nel tempo, un metodo disciplinare basato sull’analisi degli errori commessi e di ciò che invece funzionava alla grande.

Ben presto capii che questa nuova rivoluzione Industriale, atta a condurci dalle materie fossili a quelle sostenibili, non poteva certo essere portata a compimento dagli agricoltori. Bisognava portare il tema ad altri livelli, sia in termini di capacità di investimento, che in quelli di visione a lungo termine.

Cominciai così ad approcciarmi al mondo industriale, rendendomi subito conto di quanto fosse difficile convincere chi, per secoli, aveva investito in materie fossili, metalli e plastiche. L’industria, come prima cosa, sottolineò il fatto che non ci fosse ancora un sufficiente numero di ettari in produzione per ragionare sulla fase di trasformazione, e queste affermazioni si sposavano con quelle degli imprenditori agricoli, i quali lamentavano la mancanza di industrie pronte a lavorare le produzioni.

Compresi quindi che la soluzione doveva trovarsi nella sinergia, per non dire nella fusione tra il mondo agricolo e quello industriale. Bisognava realizzare un programma che permettesse di sincronizzare la produzione della materia prima alle fasi successive di lavorazione, ed era chiaro che, se fossimo riusciti a rendere possibile questo, si sarebbero aperte enormi opportunità per entrambi i settori.

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